Chi sono i malati degenti in RSA?

A dieci anni dall’approvazione della legge 10 dedicata alle cure sanitarie e socio-sanitarie a domicilio per malati e persone con disabilità non autosufficienti, nessuna delle amministrazioni della Regione Piemonte che si sono alternate da quell’anno a oggi ha mai approvato il regolamento attuativo della legge stessa, le regole, cioè, che avrebbero permesso alle Asl e agli altri Enti coinvolti di erogare le dovute prestazioni come previsto dal testo della norma.

Autore
Pietro Landra, geriatra, direttore sanitario Rsa Il Trifoglio (Torino), già direttore di Unità valutativa geriatrica dell’Asl To4 di Torino (oggi Asl Città di Torino)


Può sembrare strano dover dimostrare che una persona con demenza è un malato, ma in un mondo in cui c’è chi nega l’Olocausto e chi afferma che la Terra è piatta non dobbiamo più meravigliarci di nulla. Pertanto procedo. Tra i malati, ci sono i soggetti affetti da patologie acute. Nessuno ne mette in dubbio il loro status di malato e il correlato diritto alle cure gratuite, fatto salvo il pagamento di eventuale ticket. Ci sono inoltre le persone affette da patologie croniche che non compromettono in modo significativo l’autosufficienza: diabete mellito, ipertensione arteriosa, bronchite cronica, ecc… Anche qui la malattia, con i suoi bisogni, è riconosciuta, tanto che l’ultimo piano regionale per i malati cronici si dilunga a prevedere P.D.T.A. (percorsi diagnostici terapeutici assistenziali) su misura per ogni tipologia. Ci sono poi i soggetti affetti da patologie croniche che li hanno condotti a perdere, in parte o del tutto, l’autosufficienza. E qui, per dirla in breve, la musica cambia. Si comincia con assurdi bizantinismi volti a confondere e a negare la realtà sanitaria, nei provvedimenti sul tema si parla di prestazioni residenziali socio-assistenziali, socio-sanitarie, e poi ancora: sanitarie a rilevanza sociale, sociali a rilevanza sanitaria, socio-sanitarie a elevata integrazione sanitaria (cfr. decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 febbraio 2001). Si prosegue prevedendo percorsi tortuosi e accidentati per ottenere le cure. Si finisce – ne sono un lampante e negativo esempio le delibere sulla residenzialità sociosanitaria della Regione Piemonte – per negare il diritto alle cure, anteponendo ad esso il pareggio dei bilanci e sdoganando liste d’attesa (a volte anche di anni) sia per le residenze che per gli interventi domiciliari e semi-residenziali. È vero che malattie come l’Alzheimer, il Parkinson hanno un impatto sociale notevole. Ma questo è dovuto al sempre più alto numero dei casi ed alla ricaduta devastante sulle famiglie, non alla genesi, che è sanitaria: sono descritte nei trattati di medicina, non in quelli di scienze sociali.
Copertura medica insufficiente. La natura sanitaria delle esigenze dei malati cronici non autosufficienti ha come componente fondamentale il fatto che esse sono indifferibili, cioè mai clinicamente e legittimamente rinviabili: una presa in carico non tempestiva potrebbe portare alla morte la persona malata o causare un ulteriore peggioramento delle condizioni di salute ed autonomia. Consci di questo fatto, e posti di fronte alla negazione delle cure sanitarie ai propri cari, che pure sono un diritto esigibile, i familiari spesso inseriscono privatamente il malato in Rsa, impoverendosi. Purtroppo la vigente normativa assicura una presa in carico medica strutturata solo per chi entra in Rsa in convenzione, non per chi vi accede privatamente. Il medico di medicina generale del paziente convenzionato con l’Asl ha obblighi di presenza, e conseguente riconoscimento economico, più elevati rispetto ai normali pazienti; per i degenti privati, il medico di medicina generale continua a svolgere il suo lavoro come prima, spesso, soprattutto per i pazienti ricoverati lontano dallo studio del medico, visitando sporadicamente o mai il degente. Del resto la presenza del medico di medicina generale, come delle altre professionalità, non è certo un lusso. Senza contare che molto spesso, come sarà più esplicito nel resto dell’articolo, i pazienti ricoverati hanno esigenze terapeutiche che chiamano in causa medici specialisti. Con un ossimoro affermo che il medico di medicina generale è fondamentale nelle strutture per demedicalizzare (ovviamente se è un buon medico); ho notato che è proprio nelle piccole strutture, senza direttore sanitario, che si fa spesso un uso incontrollato di farmaci; in una di esse ad una anziana venivano somministrati 16 farmaci diversi, non è un caso isolato e nemmeno, sono convinto, il più clamoroso; non per niente il Ministero della Salute, attraverso la raccomandazione ministeriale n° 17 (“Raccomandazione per la riconciliazione della terapia farmacologica”) del dicembre 2014 invita i medici a porre grossa attenzione sulla politerapia. Il buon medico ha sempre in mente la prevenzione quaternaria, che riguarda i rischi inerenti pratiche diagnostiche o terapie inutili, futili, potenzialmente iatrogene.
Chi sono i pazienti della Rsa. In un precedente articolo pubblicato su questa rivista criticavo la definizione di «vecchiettini» data ai malati ricoverati in Residenza sanitaria assistenziale – Rsa (valutazione estendibile quindi anche a quelli a casa, in lista d’attesa); il diminutivo è (quasi) sempre svalutante ed il termine non dà l’idea dei drammi e dei bisogni di questa popolazione. Per essere più circostanziato descriverò una popolazione reale, quella della Rsa «Trifoglio» in cui opero come direttore sanitario. Può essere paradigmatica delle altre residenze e dei soggetti non autosufficienti a casa. Per non dilungarmi troppo, conscio del rischio di eccessiva schematicità (ogni malato è portatore di una particolare soggettività e l’intervento deve essere il più possibile personalizzato), cercherò di individuare quattro gruppi di malati, caratterizzati da particolari esigenze. Doverosa premessa: elencherò una serie di sintomi e problemi tipici dei vari gruppi, ovviamente non tutti i pazienti presentano tutti i sintomi del proprio gruppo, anche se la probabilità della loro comparsa non è certo remota. Per ogni paziente degente in Rsa è redatta una cartella clinica digitalizzata sulla quale possono intervenire tutti i professionisti che lavorano nella struttura o che hanno in carico il paziente: operatori socio-sanitari, infermieri, medici, fisioterapisti, psicologi…. Gli interventi terapeutici sul paziente sono frutto dell’attività di valutazione e confronto dei contributi che sono riportati sulla cartella clinica da tutte le professionalità che operano sul singolo caso.
Persone con demenza in fase avanzata. È il gruppo più nutrito, circa il 55% dei degenti. Sono malati con problemi a mantenere la stazione eretta, non sono più in grado di camminare, sono mobilizzati dal letto alla carrozzina e viceversa, sovente non si rendono conto della loro incapacità e tendono ad alzarsi e cadono; si rende spesso necessaria una forma di contenzione (che va in ogni caso limitata al massimo e continuamente rivalutata), alcuni gridano parole di senso compiuto («Aiuto!», «Mamma!», «Signora!») o monosillabi ripetuti di continuo, manipolano le loro feci, sono totalmente dipendenti nelle attività della vita quotidiana, sono incontinenti, due malati su tre vanno imboccati e la possibilità di disfagia (incapacità di alimentarsi correttamente) è elevata per cui sovente vengono colpiti da polmonite «ab ingestis», cioè causata da cibo o bevanda penetrati nelle vie aeree. Invertono il sonno con la veglia. La possibilità di sviluppare infezioni urinarie è per tutti loro elevata, necessitano di estrema attenzione per prevenire lesioni cutanee da pressione e sono in genere suscettibili a tutti i fenomeni racchiusi sotto il nome di «sindrome da immobilizzazione». Ogni aspetto della loro presa in carico pertiene alla tutela della loro salute. Per l’igiene personale si provvede con bagno completo almeno settimanalmente, quotidianamente igiene parziale di viso, mani, cavo orale, zone intime. La signora C. C., 72 anni, con diagnosi di Alzheimer e crisi epilettiche è un caso tipico. Completamente non lucida, viene idratata tramite fleboclisi, deglutisce a fatica e trattiene il cibo in bocca. È quindi necessaria una costante valutazione dell’apporto nutrizionale effettivamente assimilato. Essendo allettata – con i presidi antidecubito (materasso, cuscino) – va mobilizzata ogni due ore, pratica che non evita l’insorgere periodico di escoriazioni/ematomi da pressione che vanno immediatamente affrontati con specifici trattamenti clinici. Saltuariamente ha movimenti incoordinati degli arti (in questi casi è da valutare molto attentamente il posizionamento di cannule o accessi venosi, che il malato potrebbe rimuovere impropriamente), non emette più vocalizzi, che al momento del ricovero erano invece frequenti. Il signor B. L. affetto da demenza e parkinsonismo è ricoverato da cinque anni in Rsa. Dalla cartella clinica: recentemente ha avuto una subocclusione intestinale, ha deliri notturni consistenti in fantomatici appuntamenti che rischia sempre di mancare e conseguente agitazione, viene mobilizzato in carrozzina, ma è ancora in grado di alzarsi e di percorrere piccoli tragitti, a volte è aggressivo verbalmente con gli operatori che, date le sue condizioni, devono assicurare una sorveglianza per 24 ore su 24 per evitare danni ulteriori. Ha necessità di usare farmaci anticoagulanti con periodici controlli. Per questi pazienti non è improprio parlare di un «continuo stillicidio di eventi» che necessitano di interventi tempestivi e integrati.
Persone con demenza «in fase florida» – Nucleo Alzheimer. Sono i pazienti che presentano una grave compromissione cognitiva, ma conservano ancora buone competenze motorie. Le Unità di valutazione geriatriche (o commissioni di valutazione analoghe), a volte, applicando i «numerini» delle scale di valutazione in uso (utilizzo il diminutivo per i motivi discussi più sopra, in analogia a «vecchiettini»), attribuiscono loro una intensità terapeutica/ assistenziale media, mentre i loro bisogni sono molto impegnativi da soddisfare.
Camminano, spesso ininterrottamente, rischiano di allontanarsi dalla struttura (o dal loro domicilio) e di perdersi, spesso rifiutano, per paura, le pratiche igieniche, si urtano, cadono, urinano in luoghi incongrui, sono aggressivi verbalmente e fisicamente. I sintomi sovente risentono favorevolmente di terapie adeguate e soprattutto di un corretto metodo assistenziale. Il luogo dell’Rsa migliore per curarli è il nucleo Alzheimer (non importa ovviamente il tipo di demenza) sia per il migliore rapporto numerico operatori/pazienti, sia per gli spazi architettonici più adeguati, sia perché è più facile impostare un approccio con pratiche non farmacologiche (per esempio «gentle care», una presa in carico orientata ad assecondare i bisogni espressi dal paziente, anziché le rigidità della struttura). Rappresentano il 10% dei residenti della Rsa. Per i pazienti di questo gruppo è fondamentale una continua revisione degli interventi, sia a livello farmacologico (per individuare la minima dose efficace) che di presa in carico clinica globale. Non va trascurata l’opportunità di attuare «terapie» non farmacologiche che si basano su un approccio al paziente in cui l’operatore con il tatto e con lo sguardo instaura una comunicazione con il malato che “aggira” le impossibilità sul piano cognitivo-relazionale cosiddetto normale (validation, doll-therapy, ecc.). Il dato più rilevante è che, grazie ad una gestione corretta, è possibile ridurre drasticamente la contenzione, se non abolirla del tutto. Se alle 20 il paziente non vuole andare a letto gli si permette di continuare a passeggiare, intrattenersi con l’operatore o quant’altro non rechi nocumento a lui ed agli altri pazienti; sarà lui a decidere il momento del riposo, alle 22, 23 o anche più tardi. In un’altra realtà si sarebbe resa necessaria la contenzione al letto tramite sponde, cintura e una dose di tranquillanti, con tutti gli effetti collaterali conseguenti. Il paziente A. N. 67 anni, demenza in fase avanzata, cammina, tende a girovagare; in passato quando non era degente nel «nucleo Alzheimer», si era allontanato dalla struttura, inseguito dagli operatori e fermato a tre isolati di distanza dall’edificio. Il fatto, del quale i famigliari sono stati debitamente informati, ha consigliato il ricovero nel «nucleo protetto». Il paziente urina dove capita (sull’armadio, in mezzo al corridoio…) non è collaborativo nelle operazioni terapeutiche e assistenziali: gli operatori devono riuscire, attraverso atteggiamenti rassicuranti, a convincerlo a lavarsi, a vestirsi…. Tende ad andare a letto molto tardi, all’una o alle due di notte, abitudine che nel «nucleo protetto» è possibile perché c’è più monitoraggio da parte degli operatori.
Malati polipatologici non autosufficienti. La condizione di limitata o nulla autonomia può essere dovuta ad una pluralità di patologie, i cui esiti rendono la persona malata non autosufficiente. I pazienti che appartengono a questa categoria sono eterogenei: soggetti affetti da varie malattie croniche invalidanti (gravi poliartrosi, esiti di incidenti vascolari cerebrali acuti, malattie neurodegenerative in fase avanzata, broncopneumopatie croniche, cardiopatie ischemiche e/o ipertensive in compenso labile, ecc) con comorbilità, tra cui importanti deficit sensoriali, demenza lieve, depressione dell’umore, diabete mellito, insufficienza renale cronica. Sono pazienti spesso suscettibili di repentini aggravamenti e richiedono frequenti controlli infermieristici e medici. In questo gruppo includo anche le persone affetti da psicosi da lunga data, sovente con pregressi ricoveri in ospedale psichiatrico e sottoposte a terapie psicofarmacologiche per anni che non hanno certo guarito la malattia ma hanno causato parkinsonismo o altri effetti iatrogeni. All’incirca sono il 30% dei degenti totali in struttura. Questo gruppo di pazienti necessita di elevate attenzioni sanitarie, quali rilevazione dei parametri vitali, accertamenti, riconciliazioni farmacologiche, sostegno psicologico, fisioterapia. Anche per loro non è improprio parlare di eventi che richiedono interventi terapeutici che si susseguono con ritmo elevato, molto spesso in concomitanza, generando effetti «a cascata». È eloquente la scheda sanitaria di ingresso nella Rsa di F. G., 80 anni, lucida ma molto rallentata. Risulta affetta da vasculopatia cerebrale con associate crisi epilettiche, epatopatia con epatite C positiva, calo molto rilevante del visus, diabete mellito di tipo 2, frequenti scompensi cardiaci, ipertensione, colicestectomia. Nelle prime settimane di ricovero presenta problemi internistici seri: periodici episodi di desaturazione, disfagia.
Malati non autosufficienti definiti impropriamente «sociali». Cito questa definizione per provocazione segnalando che si tratta, in ogni caso, di non più del 5% del numero complessivo di posti (in altre strutture forse anche meno). Da anni gli operatori degli ospedali definiscono così persone che afferiscono al Pronto soccorso soprattutto perché non hanno una solida rete familiare-amicale e il permanere a casa loro non è possibile. Definizione che è quantomai impropria in quanto la grande maggioranza di essi, oltre all’isolamento, è portatore di qualche patologia che causa non autosufficienza; vengono definiti «casi sociali» solo perché non hanno al momento eventi acuti. Ma in realtà si tratta di anziani che hanno compromesse molte funzioni strumentali della vita quotidiana: fare la spesa, usare i mezzi pubblici, maneggiare il denaro. La capacità di svolgere le attività elementari della vita quotidiana è parzialmente compromessa: camminano con l’aiuto del bastone o del deambulatore, hanno necessità di aiuto per farsi il bagno o la doccia, o per vestirsi. ecc. Dal punto di vista ambientale/sociale, la rete familiare è spesso scarna e la casa presenta sovente barriere architettoniche. Cognitivamente sono in genere orientati e la struttura permette loro di sperimentare buone relazioni, ma soprattutto vi è in loro la sensazione di essere protetti con accorgimenti volti a prevenire eventuali peggioramenti. Qui, come per gli altri gruppi, è bene precisare che un piano di aiuti domiciliari bene strutturato potrebbe permettere loro, se lo desiderano, di continuare a vivere nella propria casa, soluzione in ogni caso più economica.
In conclusione, va incrinato lo sciagurato luogo comune che ascrive queste persone al comparto sociale e mai dimenticato che una corretta presa in carico sanitaria da parte del Servizio sanitario nazionale di tutti i malati citati non solo è un loro diritto (e anche un nostro, nel caso capitasse a noi di essere un giorno nelle loro condizioni), ma può condizionare in modo favorevole la loro qualità di vita e anche ridurre i costi diretti ed indiretti. La negazione di competenza e di prestazioni del Servizio sanitario, al contrario, causa sicuramente un danno di salute ulteriore a questi malati.