La pandemia causata dal Coronavirus Covid-19 ha messo in luce pratiche di «selezione nell’accesso alle cure» proposte come linee etiche di comportamento (!). È la stessa logica di selezione dei malati «degni o non degni di essere curati» di cui sono vittime – unici fra i malati – i pazienti cronici non autosufficienti, di qualsiasi età. È l’espressione della sub-cultura dello «scarto», una radicale negazione dell’universalismo del nostro Sistema sanitario e delle tutele della Costituzione.

Andrea Ciattaglia
Mauro Perino
Norberto Bobbio affermava che il rispetto della vita è il fondamento di ogni convivenza civile ed è il presupposto di tutti gli altri diritti. Ma, nello stesso tempo, non potrebbe essere garantito senza che gli altri principali diritti e doveri dei cittadini siano anch’essi riconosciuti. Il ragionamento del filosofo sembra adattarsi bene all’attuale situazione generale di riconoscimento e rispetto dei diritti fondamentali, soprattutto nella persona dell’anziano. Qui il nesso indicato da Bobbio risulta ancora più evidente: la perdita di valore che subisce chi è uscito dal mondo produttivo è imposta da una organizzazione sociale che, in modo sempre più marcato in questi anni, arriva addirittura a fomentare intenzionalmente un conflitto generazionale, con la finalità di ridimensionare quel che resta dello Stato sociale posto a fondamento della nostra Carta costituzionale.
Si afferma che gli anziani consumano troppe risorse a causa dei loro bisogni sociali (spesso non meglio identificati) e sanitari (molto spesso negati una volta che sopraggiunga la condizione di non autosufficienza) e che perciò rappresentano un ostacolo per la creazione di investimenti per i giovani. Inoltre gli anziani – in genere consapevoli di avere «un grande avvenire dietro le spalle» – guardano spesso con rimpianto agli anni delle grandi ed ancora apprezzate riforme – in primis quella sanitaria che ha avuto il suo esito nella rivoluzionaria legge 833/1978 – che hanno cambiato in senso più democratico il nostro Paese.
Sono perciò poco attratti dai cambiamenti degli assetti economici e politici che ci vengono «richiesti dall’Europa». In buona sostanza sono dei «conservatori», da combattere in nome delle «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria che, secondo i maestri del pensiero unico globale, caratterizzeranno il nostro futuro, ormai trasformato in merce dalla finanza internazionale.
E se, per cominciare, ai vecchi si togliesse il diritto di voto?
Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunità di Bose, osserva che «oggi nel nostro Occidente la vecchiaia non è solo un dato biologico ma è una stagione resa più pesante da ragioni culturali. I vecchi sono improduttivi e, di conseguenza, sono percepiti come persone dalla scarsa rilevanza sociale. Il più delle volte sono ritenuti insignificanti, privati anche della parola perché da loro non si vuole ascoltare più nulla».
E dunque perché non limitare, o meglio ancora sopprimere, il loro diritto ad esprimersi con il voto, al pari degli altri cittadini, sulle scelte di governo del Paese?
L’idea evidentemente piace allo scrittore Erri De Luca – classe 1950, 70 anni – che, in un intervento svolto all’ultimo Salone del libro di Torino, si esprime a favore di un ridimensionamento del peso del voto espresso dagli anziani in questi termini: «La nuova generazione nata dopo le guerre si è ritrovata inserita in uno spazio comune». «Tra poco avremo le elezioni europee: perché il mio voto dovrebbe contare come quello di un giovane, nato e cresciuto in questo spazio? Il destino dell’Europa appartiene a loro, proseguiranno verso una migliore unione e integrazione». E poi, ancor più chiaramente, «il fatto che voto io, mi dà fastidio, che vale come quelli nati adesso. Arrivo io, magari un inglese incazzato e anziano, e decido».
Va oltre Beppe Grillo – classe 1948, 72 anni – che propende decisamente per la soppressione del diritto di voto: «L’idea nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle nuove generazioni più giovani, e molto meno propensi a sopportare le conseguenze a lungo termine delle decisioni politiche. In tal caso i loro voti dovrebbero essere eliminati del tutto, per garantire che il futuro sia modellato da coloro che hanno un reale interesse nel vedere realizzato il proprio disegno sociale (…) Le generazioni non nate sono, sfortunatamente, incapaci di influenzare le decisioni che prendiamo qui ed ora. Tuttavia, possiamo migliorare il loro destino spostando il potere decisionale verso che tra noi dovrà interagire con loro. Il dibattito è aperto».
E, per quanto riguarda chi scrive, anche immediatamente chiuso. Come si può infatti constatare, i due illustri personaggi non manifestano alcuna preoccupazione sul fatto che le loro parole sono in aperto contrasto con l’articolo 48 della Costituzione, alla quale tutti dobbiamo rispetto e che, in proposito, afferma: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. (…) Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».
Va rilevato, peraltro, che il conto dei vecchi è sempre artatamente sovradimensionato, quando si tratta di veicolare il messaggio che «consumano risorse». È infatti assurdo considerare improduttivi o anziani gli ultra sessantacinquenni. Non solo perché molti, addirittura ultraottantenni, sono invece attivissimi, a partire dai tanti amministratori delegati di grandi società (Del Vecchio, Luxottica; Luciano Benetton, Gruppo Benetton; Giorgio Armani, Gruppo Armani, tra gli altri, tutti oltre le ottanta primavere), ma anche perché il termine anagrafico dell’età pensionistica è stato fissato generalmente dalle ultime riforme a 67 anni. La Società italiana di gerontologia e geriatria (Sigg) ha già proposto di spostare l’età convenzionale dell’anzianità da 65 a 75 anni sulla base di studi e risultanze scientifiche.
Considerare la macrocategoria degli «improduttivi» (con tutte le difficoltà di tale definizione) uguale a quella degli «ultrasessantacinquenni» le ingigantisce e quindi rende più accettabile la posizione di eugenetica sociale – che, vedremo in seguito nell’articolo, ha la sua più deprecabile espressione nell’ambito sanitario – del fatto che le risorse non bastano per tutti e che quindi si deve scegliere chi lasciare senza diritti, iniziando dai malati e dai vecchi.
Al riguardo va almeno ribadito qui in apertura che la sentenza della Corte costituzionale 275/2016 afferma essere «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
Sono morti perché vecchi ed i vecchi, prima o poi, devono morire.
A proposito dei decessi di ricoverati nel periodo del «propagarsi del Coronavirus non è consolante per gli anziani ascoltare i martellanti bollettini che insistono sul fatto che molti erano, per l’appunto, vecchi, per di più segnati da alcune patologie. Gli anziani – fa notare Enzo Bianchi – reagiscono a questi annunci con fastidio, più che con paura, perché si sentono interpellati ancora una volta per ragioni mediche, demografiche ed economiche. Non ci si rivolge invece ad essi come uomini e donne tutt’ora presenti tra noi che vorrebbero aggiungere vita ai loro giorni sempre più precari». Ma con l’aggravarsi della crisi da Coronavirus e la sempre più ridotta disponibilità di posti letto negli ospedali il rischio è che ai pazienti che genericamente mostrano meno possibilità teoriche di altri di superare positivamente la malattia (anziani, malati cronici…) – lungi dall’aggiungere – si arrivi invece a sottrarre vita ai loro giorni.
Si caratterizza in tal senso un documento, reso pubblico il 6 marzo scorso, redatto dalla Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti) ed intitolato “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. Secondo la Siaarti le previsioni sull’epidemia da Coronavirus (Covid-19) in corso, indicano un aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta, con necessità di ricovero in terapia intensiva, di entità tale da determinare un enorme squilibrio tra necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive.
In tale scenario – sostanzialmente assimilabile, secondo il gruppo di lavoro che ha redatto il testo, all’ambito della «medicina delle catastrofi» – potrebbero essere necessari criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione dalle stesse) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di «giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate», tema sul quale i medici estensori del documento si sentono in dovere di esprimersi, senza il conforto esplicito di alcuna altra professionalità (giuridica, economica…) che non sia del loro ambito clinico. Dato il contesto di grave carenza delle risorse sanitarie, spiegano, si deve puntare, nell’allocazione delle stesse, a garantire trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: privilegiando dunque la «maggior speranza di vita». Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di «idoneità clinica»: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbilità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità. Questo comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive del tipo «primo arrivato, primo servito».
É implicito che l’applicazione di criteri di razionamento è giustificabile – bontà loro – soltanto dopo che da parte di tutti i soggetti istituzionali coinvolti (Unità di crisi e dirigenze degli ospedali) sono stati compiuti tutti gli forzi possibili per aumentare la disponibilità di risorse erogabili (nella fattispecie, letti in terapia intensiva) e dopo che è stata valutata ogni possibilità di trasferimento dei pazienti verso centri con maggiore disponibilità di risorse. Scopo dichiarato delle raccomandazioni è di sollevare i clinici da una parte delle responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose, compiute nei singoli casi, e di rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità.
Negare, per motivi “etici”, il diritto alla vita ai malati
Vediamo nel dettaglio i 15 punti di “etica clinica” per l’ammissione ai trattamenti e per la loro sospensione:
I criteri straordinari di ammissione e dimissione sono flessibili e possono essere adattati localmente alle disponibilità di risorse, alla concreta possibilità di trasferire i pazienti, al numero di accesi in atto o previsto. I criteri riguardano tutti i pazienti intensivi e non solo quelli con infezione da Covid-19.
L’allocazione è una scelta complessa e delicata, anche per il fatto che un eccessivo aumento straordinario dei letti intensivi non garantirebbe cure adeguate ai singoli pazienti e distoglierebbe risorse, attenzione ed energie ai restanti pazienti ricoverati nelle terapie intensive. Occorre inoltre considerare il prevedibile aumento della mortalità per condizioni cliniche non legate all’epidemia, ma dovuta alla riduzione dell’attività chirurgica ed ambulatoriale finalizzata al trattamento delle stesse e alla scarsità di risorse intensive.
Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in T.I. (Terapia intensiva). Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio di «first come, first served» (primo arrivato, primo servito) equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla terapia intensiva.
In aggiunta all’età devono essere attentamente valutati la presenza di comorbilità e lo status funzionale. Nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbilità severa è ipotizzabile che il decorso diventi potenzialmente più lungo rispetto a quello delle persone sane «e quindi più ‘resource consuming’ [consumatore di risorse, ndr] sul servizio sanitario».
Deve essere considerata con attenzione l’eventuale presenza di volontà precedentemente espresse dai pazienti attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) ed in particolare quanto definito, insieme ai curanti, da parte delle persone che stanno già attraversando il tempo della malattia cronica attraverso una pianificazione condivisa delle cure.
Per i pazienti ai quali viene precluso l’accesso ad un percorso intensivo in quanto giudicato «non appropriato», la decisione i porre una limitazione alle cure dovrebbe essere comunque motivata, comunicata e documentata. Tale esclusione dalla ventilazione meccanica non deve precludere intensità di cure inferiori.
Un eventuale giudizio di inappropriatezza all’accesso a cure intensive basato unicamente su criteri di giustizia distributiva (squilibrio estremo tra richiesta e disponibilità) trova giustificazione nella straordinarietà della situazione.
Qualora si presentino situazioni di particolare difficoltà ed incertezza nel processo decisionale può essere utile avere una «seconda opinione», anche solo telefonica, da parte di interlocutori di particolare esperienza (ad esempio il Centro Regionale di Coordinamento).
«I criteri di accesso alla terapia intensiva andrebbero discussi e definiti per ogni paziente in modo il più possibile anticipato». Creando in tal modo una lista di pazienti che saranno ritenuti «meritevoli di Terapia Intensiva nel momento in cui avvenisse il deterioramento clinico»: sempre che le disponibilità del momento lo consentano. Sarebbe inoltre opportuno inserire nella cartella clinica l’indicazione «do not intubate» [non intubare, ndr] in modo da costituire una guida in caso di precipitoso deterioramento clinico e in presenza di curanti che non hanno partecipato alla pianificazione e che non conoscono il paziente.
Per i pazienti in carenza di ossigeno con progressione della malattia è da considerarsi necessaria la «sedazione palliativa (…) in quanto espressione di buona pratica clinica». Qualora si dovesse prevedere una agonia non breve, deve essere previsto un trasferimento in ambiente non intensivo.
Tutti gli accessi a cure intensive devono essere sottoposti ad una quotidiana rivalutazione dell’appropriatezza. «Nel caso si ritenga che un paziente, ricoverato magari con criteri borderline, non risponda a trattamento iniziale prolungato oppure si complichi in modo severo, una decisione di “desistenza terapeutica” e di rimodulazione delle cure da intensive a palliative – in uno scenario di afflusso eccezionalmente elevato di pazienti – non deve essere posticipata».
La decisione di limitare le cure intensive «deve essere discussa e condivisa il più possibile collegialmente dall’equipe curante e – per quanto possibile – con il paziente (e i familiari), ma deve poter essere tempestiva».
Il supporto dell’ossigenazione extra corporea a membrana (ECMO) è «resource consuming» [consumatore di risorse, ndr] rispetto ad un ricovero ordinario in terapia intensiva. Dunque in condizioni di afflusso straordinario dovrebbe essere riservato a casi estremamente selezionati e con previsione di svezzamento relativamente rapida.
É importante «fare rete» tra centri e singoli professionisti. Al termine dell’emergenza, sarà importante dedicare tempo e risorse a momenti di «debrifing e di monitoraggio dell’eventuale burnout professionale e del moral distress degli operatori».
Devono essere considerate infine anche le ricadute sui familiari dei ricoverati nelle Terapie Intensive Covid-19, soprattutto nei casi in cui il paziente muoia al termine di un periodo di restrizione totale delle visite.
Flavia Petrini (classe 1955, 65 anni), Presidente della Siaarti, intervistata sulle tematiche del documento, alla domanda se il principio della cura intensiva a chi ha «maggiore speranza di vita» era già utilizzato risponde: «Certo, lo avevamo indicato in altri documenti. Non è la condotta del professionista ad essere eccezionale in questo momento ma l’alto afflusso delle persone malate. E faccio notare che il principio non viene applicato solo tra chi ha il coronavirus ma anche tra chi è colpito da altre patologie gravi, che ovviamente continuano ad esserci».
Va notato con allarme che i 15 punti di cosiddetta «etica clinica» non riguardano solamente le persone anziane, ma precisano – purtroppo – una scelta ritenuta valida su tutte le persone malate e deboli. Solamente nei punti 3 e 4 si fa riferimento all’età, con la precisazione che le scelte riguardano «chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza». Il contenuto dei punti ed in particolare la selezione su «chi» non curare basata su criteri discrezionali, non previsti dalle leggi e dalla Costituzione, non suona nuovo ai lettori di “Prospettive assistenziali”, dal momento che è attuato nei fatti da quasi vent’anni nei confronti degli anziani malati cronici non autosufficienti e delle persone colpite da demenza senile con l’estensione a tutte le persone non autosufficienti, come previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 gennaio 2017 (cosiddetti nuovi Lea). Da anni siamo, come abbiamo da tempo segnalato sulle pagine di questa rivista, in una situazione di attuazione dei nefasti principi di eugenetica sociale di triste memoria.
La Costituzione vieta di porre qualsiasi limite all’accesso alle cure
A proposito del documento della Siaarti, Gian Carlo Caselli (anno di nascita 1939, 81 anni) manifesta le sue condivisibili perplessità: «Non riesco a liberarmi dalla sensazione che quel documento contenga una nota stonata nei confronti dei vecchi come me. In sostanza esso sostiene che prima o poi, perdurando la disastrosa emergenza del Coronavirus, sarà necessario fissare un limite di età per l’accesso alle terapie intensive basato sulle maggiori possibilità di sopravvivenza e sul fatto di avere più anni di vita salvata. Non è proprio l’invito a selezionare gli ingressi in ospedale stilando liste differenziate a seconda dell’età, fino a prevedere una specie di “proscrizione” dei più vecchi e malandati, ma un poco ci assomiglia».
Nel documento si afferma che affrontare il tema del razionamento dell’accessibilità alle cure intensive può essere emotivamente difficile, ed è giusto, secondo Caselli, porsi anche questo problema. Ed i medici lo risolvono dicendo che il loro è solamente un tentativo di illuminare il processo decisionale del singolo anestesista/rianimatore. «Bene, ma col difetto di trascurare l’ansia, lo stress e il senso di solitudine che il documento non può non provocare nei vecchi, specie se malandati. I quali, trovandoselo squadernato dai media, poiché esso sembra (forse al di là delle intenzioni) escludere di fatto ogni residuo spazio di speranza, inevitabilmente saranno portati a rimuginare sul triste destino senza scampo che potrebbe loro toccare, quando l’eventuale ricovero in ospedale non fosse più per curarli ma soltanto per sostituire ai medici il decorso del tempo necessario a morire». Conclude l’ex magistrato: «Imperniando il ragionamento sulle aspettative di vita e circoscrivendolo in questo ambito, si finisce per trascurare il profilo altrettanto se non più importante della qualità della vita dei vecchi, che sebbene ormai breve, non merita assolutamente di essere avvelenata da angosce indotte che si aggiungono a quelle fisiologiche».
Anche Salvatore Settis (1941, 79 anni) propone alcune fondamentali ed argomentate critiche al testo della Siaarti. Secondo l’archeologo e storico dell’arte, appassionato difensore della Costituzione, parlando del Coronavirus non da esperti, ma da pazienti potenziali, il ventaglio delle ipotesi che ci si aprono davanti è piuttosto ampio, anche per la segmentazione regionale della sanità. «Limitiamoci dunque alle due ipotesi di lavoro che stanno agli estremi di questo ventaglio: la cura di chi è colpito da Covid-19 (quali che ne siano oggi o domani le dimensioni) va fatta secondo la Costituzione oppure – all’altro estremo – secondo le raccomandazioni diffuse ieri dalla Siaarti, un’associazione professionale che riunisce chi lavora nei reparti di terapia intensiva?».
L’articolo 32 della nostra Carta – uno dei più importanti secondo Settis – prescrive: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e soggiunge che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» con ciò facendo esplicito riferimento all’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Due sono pertanto i principi-guida secondo Settis: «Primo, tutelare la salute di ciascun individuo vuol dire al tempo stesso tutelare l’interesse della collettività (nessuno di noi è un’isola, la sofferenza e la morte di ciascuno si ripercuote nella famiglia e nella società). Secondo, la cura della salute individuale dev’essere uguale per tutti, a prescindere dalle “condizioni personali e sociali” di ciascuno».
I medici della Siaarti non sono però d’accordo: «Di fronte all’eventuale necessità per il medico di “prendere in breve tempo decisioni laceranti da un punto di vista etico oltre che clinico”, e cioè, “quali pazienti sottoporre a trattamenti intensivi quando le risorse non sono sufficienti per tutti”, non c’è che una strada: “privilegiare la speranza di vita”, cioè curare non chi arriva prima o è più grave, ma chi è più giovane. Perciò “può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza”. Nulla vien detto di come il medico deciderà fra un trentenne con gravissime patologie e un settantenne in gran forma».
Come dichiarato nel documento, le raccomandazioni hanno lo scopo di sollevare i clinici da una parte delle loro responsabilità nelle scelte, emotivamente gravose, compiute nei singoli casi. «Se un ottantenne verrà respinto dai centri di rianimazione a causa della sua sola età, dovrà dunque consolarsi sapendo che era giusto così, per ragioni di “giustizia distributiva e appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”. Apprendiamo dunque che in certe condizioni può essere “appropriato” per un medico rifiutare le cure a un malato, con la benedizione della propria associazione di categoria».
Salvatore Settis cita, in proposito il “Giuramento del Medico”, un testo greco scritto intorno al 400 avanti Cristo e attribuito allo stesso Ippocrate: «“Giuro che regolerò ogni prescrizione per il giovamento dei malati secondo le mie possibilità e il mio giudizio. Giuro che mi asterrò dal recar loro qualsiasi danno e offesa, e che mi comporterò sempre e solo per il bene dei malati”. Nessun cenno all’opportunità di abbandonare i vecchi al loro destino, nemmeno nelle epidemie di peste (all’ora tutt’altro che rare)». Nulla obbliga i medici che hanno scritto il documento a conoscere e praticare il Giuramento. «Ma essi sembrano non sospettare nemmeno che le loro parole sono in nettissimo contrasto con la Costituzione vigente nel Paese in cui lavorano. Ma cosa ne pensano gli organi del Governo? E gli altri medici e operatori sanitari che operano in terapia intensiva in tutta Italia? E le associazioni professionali dei medici di altre specialità? Vorranno forse unire le loro voci a quelle dei colleghi della Siaarti, chiedendo con urgenza una modifica della Costituzione? Potrebbe suonare così: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale senza distinzione di condizioni personali e sociali, tranne l’età”».
I cittadini hanno il diritto di sapere se è vero che la gravità della crisi comporta di per sé un «affievolimento del diritto» – come credono gli estensori del documento della Siaarti – sospendendo la validità universale del diritto alla salute, garantito dalla nostra Costituzione, ed introducendo un limite di età per l’accesso alle cure cioè escludendo i vecchi. Ebbene «no, non è vero» è la ferma risposta di Settis: «Stabilire per iscritto, e chiamandolo “etica medica”, un limite di età per l’ammissione in terapia intensiva vorrebbe dire burocratizzare la medicina, inventando una regola dietro cui il medico possa nascondersi e de-responsabilizzarsi. Vorrebbe dire trasformare in normalità, in regola condivisa, quel che è stato, semmai, dolorosa scelta individuale in condizioni estreme (in cui medici e infermieri spesso danno il meglio di sé)».
Il medico deve sempre rispettare la Costituzione e il Codice deontologico
All’appello a pronunciarsi nel merito, rivolto da Settis alle associazioni professionali dei medici di altre specialità, risponde Filippo Anelli, Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (Fnomceo) , che afferma di voler recepire il documento Siaarti come un grido di dolore e che nessun medico deve essere costretto ad una scelta così dolorosa come quella prospettata nelle “Raccomandazioni”. «La nostra guida, prima di qualunque documento che subordini l’etica a principi di razionamento, e che dovrebbe in ogni caso essere discusso collegialmente dalla professione, resta il Codice di Deontologia medica. E il Codice parla chiaro: per noi tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni».
«Non possiamo permettere che si verifichino gli scenari prospettati dalla Siaarti», precisa Anelli. «Il nostro Servizio sanitario nazionale è forte e il Ministero della Salute e il Governo stanno, con i provvedimenti eccezionali di questi giorni, ulteriormente mettendolo in sicurezza. Stanno aumentando i posti nelle terapie intensive, comprando le apparecchiature necessarie, assumendo personale. Dovere della Fnomceo, Ente preposto alla tutela della salute, è dare la migliore consulenza perché vengano messe in atto tutte le misure necessarie».
«Chiediamo alle Regioni che anche la Sanità militare e la Sanità privata vengano reclutate per gestire l’emergenza, mettendo a disposizione le loro strutture: le cliniche, i reparti di rianimazione, gli ospedali da campo. Chiediamo loro che il personale sanitario riceva subito i dispositivi di protezione necessari per portare avanti il lavoro in condizioni sicure per loro e per i pazienti. Chiediamo a tutti i cittadini di adoperarsi per limitare i contagi, attenendosi scrupolosamente alle indicazioni divulgate dal Ministero della salute, dalla Presidenza del Consiglio e dalla Protezione Civile. Dobbiamo prevenire ed evitare il verificarsi delle condizioni definite “di medicina delle catastrofi” prospettate, seppur come mera ipotesi, dalla Siaarti. Non dobbiamo metterci nelle condizioni di applicare questi inaccettabili triage di guerra».
«In ogni caso – conclude il Presidente – ricordiamo che il medico, pur avendo tutte le competenze per dare pareri suggeriti da criteri di appropriatezza, non deve essere costretto ad ergersi a giudice. L’unico metro di giudizio della Professione restano i principi della Costituzione, del Codice di Deontologia, del Servizio sanitario nazionale. L’applicazione di criteri di razionamento è l’estrema ratio e richiede una discussione bioetica collegiale interna alla professione e che pervada l’intera società».
Anche Assuntina Morresi, professoressa di Chimica e Fisica all’Università di Perugia, nonché membro del Comitato nazionale di bioetica, interviene segnalando che «se è vero che stiamo affrontando un’emergenza che resterà nei libri di storia, e che dovremo ben studiare una volta che ne saremo venuti fuori, è anche vero che i comportamenti e le decisioni di questi giorni lasceranno inevitabilmente il segno per quelli dei tempi futuri. Per questo siamo tutti chiamati a confrontarci con i dilemmi che stanno emergendo oggi, a partire dall’allarme lanciato dai nostri combattenti in prima linea: l’affollamento delle terapie intensive, con il rischio della conseguente insufficienza delle risorse disponibili, non certo tarate su una pandemia».
Secondo Morresi occorre evitare che i criteri previsti per la “medicina delle catastrofi”, e cioè per situazioni eccezionali, possano poi restare e «diventare praticabili anche in tempi normali, specie se sono facili da applicare, tanto più in un mondo che sta cambiando velocemente. Insieme alla grande tenuta anche umana del nostro sistema sanitario abbiamo visto troppo spesso venire meno il senso di responsabilità da parte di tanti, in questi giorni, e la preoccupazione verso i più fragili, cioè gli anziani e le persone già malate e disabili, è passata troppo spesso in secondo piano, privilegiando il desiderio di mantenere il proprio stile di vita».
«D’altra parte – fa osservare ancora Morresi – anche il diffondersi di leggi e modi di pensare che mettono sullo stesso piano la scelta di vivere e quella di morire, contribuisce a indebolire quella solidarietà profonda verso chi è vulnerabile. Per questo è bene chiarire che il criterio dell’appropriatezza delle cure, quindi anche la scelta dei pazienti più bisognosi di cure, che conosciamo già come “triage” in ogni Pronto Soccorso in tempo normale, continua a valere nelle condizioni di emergenza, nelle quali però va dilatato, adattato all’urgenza e alla difficoltà del momento. Vanno stabilite delle priorità, e la prima, evidente priorità è curare chi c’è, chi al momento ha bisogno di trattamenti. (…) E se di malati ne arrivano tanti contemporaneamente l’appropriatezza clinica significa individuare la ragionevole speranza di guarigione per ciascuno, considerandone l’intero quadro clinico con tutti i fattori che lo costituiscono, fra cui c’è anche l’età del paziente, ma non come criterio principale e non certo intesa in senso statistico, cioè di numerosità di anni di vita trascorsa (o attesa), per individuare una soglia di accesso alle cure».
Assuntina Morresi conclude il suo intervento con un ammonimento: «Individuare criteri di esclusione di persone dai trattamenti sanitari solo in base a considerazioni probabilistiche, per esempio solo in base all’età, significherebbe escludere ogni forma di solidarietà verso i più vulnerabili, aprendo la porta a disastri ancora più pesanti di quello da cui speriamo di uscire al più presto».
La valutazione utilitaristica della salute: oggi tocca ai vecchi, domani a tutti quanti
In buona sostanza, nel documento della Siaarti, si adotta un approccio utilitaristico in base al quale il personale sanitario deve massimizzare il benessere collettivo, misurato tramite indicatori quali, ad esempio, il numero di vite salvate o il numero di anni di vita salvati: se si sceglie, come nelle “Raccomandazioni”, di massimizzare gli anni di vita salvati, la priorità viene data ai pazienti più giovani rispetto a quelli più anziani.
Del resto l’etica dell’utilitarismo – secondo cui si devono compiere le azioni che assicurano il maggior vantaggio per la più ampia platea possibile (ma non per tutti) dei soggetti destinatari – prevede, come corollario, la piena disponibilità dell’essere umano. Nell’ottica adottata dal documento, con riferimento al problema dell’allocazione delle risorse in campo sanitario, il “bene salute” – e addirittura il “bene vita” – vengono analizzati sulla base del rapporto costi-benefici: correlando il costo, in termini di impiego di risorse tecnologiche, professionali e finanziarie, di una prestazione sanitaria al beneficio dello stato di salute o addirittura del rimanere in vita.
In un sistema sociale come il nostro, che ha ormai fatto propria la visione utilitaristica, la conclusione della vita produttiva coincide con la fine della vita biologica. In tale ottica, le prestazioni sanitarie per chi, come l’anziano, ha terminato il proprio percorso programmato come unità produttiva, risulta anti economica per il soggetto pagatore (sia esso ente pubblico o privato). Di qui la sempre più marcata tendenza dei sistemi sanitari pubblici (ma anche delle assicurazioni sanitarie private) a lesinare le cure a chi produttivo non lo è o non lo è più. E se a quel punto l’anziano non è in grado di pagare, di tasca propria, l’assistenza sanitaria – acquistandola al sempre più fiorente «mercato della salute» – non gli resta che «scegliere», o quanto meno «accettare», una morte «dignitosa».
Occorre pertanto contrastare, con tutto l’impegno umano e professionale possibile, la logica sulla quale è fondato il sistema economico e sociale neoliberistico oggi imperante che mira ad instillare, in tutte le persone, la devastante concezione secondo la quale vale la pena di vivere solo se la salute e la vita raggiungono un livello di qualità socialmente apprezzato e se hanno un valore economico tale da giustificare i costi che la cura comporta per lo Stato. Uno Stato al quale ci si appella – come avviene con l’imperversare del virus Covid-19 – per scoprire, forse troppo tardi, che è ormai fortemente indebolito nell’esercizio delle sue funzioni di tutela della salute dei singoli e della collettività.
In un momento dominato dalla crisi del Coronavirus – osserva infatti Salvatore Cannavò – niente è più significativo del titolo del libro curato da Domenico De Masi “Lo Stato necessario”: non solo una indagine sociologica ma un’esortazione che si fa strada dopo decenni di delegittimazione della cosa pubblica che ha fatto sì che – del lavoro statale – l’attuale generazione conosce solo la versione peggiore. «Dopo la svolta neoliberista di inizio anni 80 le idee sulla Pubblica amministrazione assorbono il lessico teorico e pragmatico dell’aziendalismo. Si afferma così all’inizio degli anni ’90 il nuovo paradigma (…) che si propone di elevare “l’efficienza del pubblico impiegando le stesse tecniche adottate dalle imprese private e fornendo i servizi in condizione di mercato”. In Italia figure come Renato Brunetta, nel centrodestra, o Pietro Ichino, nel campo democratico, hanno sguazzato attorno a queste idee».
Il ruolo del pubblico risente da allora dell’egemonia culturale del pensiero economico. Ed è così che dal 2010 in Italia vige nel settore pubblico, e quindi anche nel Servizio sanitario nazionale, il blocco del turn over, i contratti sono rinnovati con il contagocce, le procedure concorsuali restano preistoriche, l’efficienza conosce punti di eccellenza e veri e propri disastri. «I numeri dicono che su 60 milioni di abitanti, l’Italia possiede poco più di tre milioni di dipendenti pubblici, il 15% degli occupati. Solo il Portogallo ne ha di meno: la Gran Bretagna è al 16%, la Francia al 22 senza contare la Svezia che arriva al 29%. Nel 2002 la Ragioneria dello Stato contava 3.250.000 dipendenti a tempo indeterminato, nel 2012 erano scesi a 3.050.000». E tra i pubblici dipendenti – è il caso di ricordarlo – rientra il personale sanitario. «Passata la retorica degli “eroi” e delle “eccellenze italiane”, l’augurio è che la paura che stiamo accumulando ci permetta di destrutturare il discorso pubblico e di ridare la giusta enfasi alla “cosa pubblica”. Che resta come dimostra il Covid, il nostro bene primario».
Ospedali al collasso, chi ricorda i tagli feroci?
Non è certo colpa del «destino cinico e baro» se il nostro sistema sanitario non è in grado di reggere l’urto dell’epidemia in atto. Come osserva Silvia Truzzi, scegliendo la Carta costituzionale come lente di lettura di questa crisi spaventosa, una delle questioni centrali che saltano all’occhio – la più importante secondo la giornalista – sta tutta nell’articolo 32 della Carta che rende l’Italia un Paese autenticamente democratico, di cui essere fieri perché la salute non è appannaggio dei ricchi. Il guaio è in che modo viene ormai da tempo sostanziato il diritto alla salute, a cui è preposto un servizio sanitario gravato da tagli che, secondo un report dell’Ufficio parlamentare di bilancio, hanno comportato «conseguenze sull’accesso fisico ed economico alle cure, soprattutto durante la crisi, e uno spostamento di domanda verso il mercato privato».
L’articolo di Silvia Truzzi riporta alcuni dati significativi: «La Fondazione Gimbe ha calcolato che nel decennio 2010-2019, tra tagli e definanziamenti al Sistema sanitario nazionale (quello di cui si teme il collasso) “sono stati sottratti 37 miliardi di euro”. E ancora: la crescita della spesa pubblica sanitaria in Italia nel decennio è la più bassa dell’Ocse tolte Grecia e Lussemburgo. Anche in rapporto al Pil la spesa pubblica in Italia è inferiore alla media Ocse tolte Grecia e Lussemburgo».
Di tutto questo – osserva la giornalista – ci si è colpevolmente occupati troppo poco perché il dibattito politico è stato ostaggio dell’economia: «Nel 2012 un Parlamento inebetito dai “fate presto” ha approvato la modifica dell’articolo 81, inserendo in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio, con una maggioranza superiore ai due terzi, cosa che impedì il referendum. (…) Oggi dentro ai reparti di terapia intensiva capiamo come i diritti fondamentali possono essere messi in pericolo: una lezione che speriamo di aver imparato. Ma a che prezzo».
In buona sostanza questa emergenza ci obbliga – secondo Salvatore Settis – a guardare alla nostra salute di oggi ma anche agli errori di ieri ed alle prospettive di domani. Senza la pesante riduzione dei posti letto e del personale e la chiusura di numerosi ospedali e presidi sanitari, motivata da risparmi di bilancio, non saremmo oggi in grado di affrontare meglio la crisi? «La stessa regionalizzazione della sanità non è forse contraria all’articolo 32 della Costituzione, secondo cui il diritto alla salute è identico per ogni cittadino, da Lampedusa a Bolzano? Non ha forse prodotto guasti gravissimi, accrescendo il divario fra Nord e Sud?».
Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea. In testa la Germania con 621 posti, più del doppio. Come giustamente osserva Rosy Battaglia: «Mentre le cronache raccontano del personale sanitario allo stremo, occorre ricordare che la sanità pubblica nazionale ha perso, tra il 2009 e il 2017 più di 46 mila unità di personale dipendente. Oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri, secondo la Ragioneria dello Stato. Cifre che da sole possono far comprendere come gli ospedali e i pronto soccorso, già sotto pressione al nord, potrebbero non essere in grado di reggere la diffusione dell’epidemia. Specie nelle regioni del centro e del sud. Come denunciato dal presidente dell’Associazione Medici Dirigenti (Anaao), le strutture ospedaliere hanno perso, infatti, 70mila posti letto, solo negli ultimi 10 anni».
Con specifico riferimento alle terapie intensive e sulla base degli ultimi dati raccolti, che purtroppo risalgono al 2012, si rileva che i posti disponibili in rapporto alla popolazione sono 12 ogni 100 mila abitanti per l’Italia e la Francia (considerando però, per il nostro Paese, anche quelli degli ospedali pediatrici). In Spagna sono meno di 10 ogni 100 mila abitanti. In Gran Bretagna il rapporto scende a 7 ogni 100 mila abitanti. Svetta la Germania con quasi 30 posti di rianimazione ogni 100 mila abitanti.
Il problema – segnala Andrea Capocci – è che, in Italia, la dotazione di posti letto è stata gradualmente ridotta e, anche in tempo “di pace”, le rianimazioni sono al completo o quasi. «Nel 2015 il regolamento per gli standard ospedalieri ha stabilito per decreto che un utilizzo medio dell’80/90% dei posti letto durante l’anno deve essere ritenuto “efficiente”. Significa che dei circa 5.000 letti disponibili nei reparti di terapia intensiva, quelli liberi per l’emergenza Covid-19 in realtà sono meno di un migliaio sul territorio nazionale. Quindi, basta che i pazienti di Covid raggiungano il 20% dei posti letto di rianimazione a disposizione di una regione per saturare i reparti. A quel punto, saranno i medici a dover scegliere se respingere un paziente con il Covid-19 (e non lo faranno mai) o rimandare interventi chirurgici e altra attività mediche essenziali».
Va infine osservato, che, per la loro conoscenza diretta e professionale delle esigenze cliniche dei cittadini, i medici (singolarmente e come Ordini) hanno responsabilità non indifferenti rispetto alla situazione attuale. In merito alla negazione delle prestazioni per ragioni (pretesti) di tipo economico, per esempio, non si conoscono iniziative di comunicazione e informazione diretta ai cittadini sull’esigibilità del loro diritto alle cure e sul fatto che le prestazioni non abbiamo limite di durata. L’impegno dei clinici a favore della promozione e della tutela del diritto (cioè a difesa delle leggi che lo sanciscono) è doveroso e quanto mai importante: oltre e prima del loro Codice deontologico, va ricordato che la Costituzione all’articolo 4 stabilisce che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», che l’articolo 28 recita: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti». E che all’articolo 54 viene specificato che: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».
L’esperienza di questa rivista, della Fondazione promozione sociale e del Csa – Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base (impegnato nella promozione dei diritti dei non autosufficienti dagli anni Sessanta del secolo scorso) porta a dire che gli Ordini dei Medici, informati della palese e continua violazione delle leggi e dei diritti delle persone non autosufficienti, hanno finora fatto nulla, favorendo in concreto l’eugenetica sociale. L’Ordine dei Medici di Torino ha approvato documenti validi, ma i relativi principi sono rimasti sulla carta, nonostante le continue nostre sollecitazioni.
Lottare contro queste scelte: un dovere necessario
In questa grave situazione, la questione del vecchio, per giunta malato, come presenza allarmante per la sostenibilità del sistema sanitario prende il nome di «eugenetica sociale» e si realizza – come veniva evidenziato nell’editoriale del numero 205 di questa rivista – operando «una selezione tra coloro che sono degni di essere curati e coloro che non lo sono. In altre parole (…) tra coloro che sono o non sono degni di vivere». E per le vite che risultano indegne di esser vissute si ricorre, come si è potuto ben vedere, ad una qualche forma di eutanasia.
Ma a tutto questo ci si può ancora ribellare, come promette di fare Alessandro Marcigotto che, a proposito di “anziani da buttare”, in una lettera a Il Fatto quotidiano, scrive: «Signor presidente del Consiglio e signor ministro della Salute, anche io come tantissimi altri sono un coetaneo degli ottantenni. Sono costernato nel leggere che ora si “permetterà” agli anziani di morire. Ma vi facevamo comodo quando Vi abbiamo creato, cresciuto, fatto studiare, sposare, tenervi i bambini, permettervi di scegliere, cosa a noi 80enni non era concessa visto il periodo in cui siamo nati. Io, per esempio, sono stato portato in piazza per essere fucilato con mia madre e mia sorella. Vi diamo fastidio e vi impegniamo con poche probabilità di guarire? Lotterò contro questa irriconoscenza». E noi tutti con lui.
Autore
Andrea Ciattaglia (Torino, 1985), direttore di Prospettive assistenziali e presidente dell’Unione promozione sociale che fa parte del Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base. Autore, con Maria Grazia Breda, del libro “Non è sufficiente! Storie e proposte di chi lotta per garantire il diritto alle cure alle persone non autosufficienti” (AltraEconomia, 2013).
Autore
Mauro Perino, vicepresidente della Fondazione promozione sociale, è stato direttore del Cisap Consorzio socio-assistenziale di Collegno-Grugliasco (Cisap) dal 1995 al 2018.
1 Cfr. Prefazione a Francesco Santanera, Maria Grazia Breda, Vecchi da morire, Rosenberg & Sellier, 1987.
2 “Viene chiamato “stato sociale” l’insieme delle istituzioni pubbliche che uno Stato organizza allo scopo di assicurare a ogni cittadino, quali che siano la sua posizione e il suo reddito, un ragionevole grado di protezione da eventi che possono colpire chiunque in ogni momento: l’infortunio, la malattia, la disoccupazione, la povertà, oltre alla vecchiaia che esclude tutti dal lavoro”. Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, 2015.
3 Vittorio Gassman, Un grande avvenire dietro le spalle, Longanesi & C, 1981.
4 Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Op. Cit.
5 Enzo Bianchi, “Sommesso elogio della vecchiaia”, La Repubblica, 2 marzo 2020.
6 Manuela Marascio, “Erri De Luca consegna l’Europa ai giovani. Il loro vota conta più del mio. Hanno in mano il futuro”, TorinOggi.it,
10 maggio 2019.
7 Enzo Bianchi, “Sommesso elogio della vecchiaia”, Op. Cit.
8 Quanto alla possibilità di reperire nuovi anestesisti, la Presidente esprime forti dubbi: «secondo me fuori dal sistema se ne trovano ben pochi. Già oggi gli specializzandi degli ultimi anni sono al lavoro. La nostra specialità è da anni carente. In questo momento nel sistema ci sono già molti che fanno “volontariato”, cioè colleghi assunti che prestano tempo extra gratuitamente al loro ospedale». “Oggi per scegliere chi salvare servono regole precise”, La Repubblica, 8 marzo 2020.
9 Gian Carlo Caselli, “Messaggino ai vecchi: crepate”, Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2020.
10 Salvatore Settis, “Tu sì, tu no: i medici che ribaltano la ‘Carta’”, Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2020.
11 Salvatore Settis, “Virus, tante scuse per rimuoverlo”, Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2020.
12 “Coronavirus. Fnomceo sul documento degli anestesisti: ‘Nostra guida resta Codice deontologico. Non dobbiamo metterci nelle condizioni di applicare questi inaccettabili triage di guerra’”, quotidianosanità.it, 8 marzo 2020.
13 Assuntina Morresi, “Coronavirus. L’età è un elemento di cura non un criterio di priorità”, Avvenire.it, 12 marzo 2020.
14 Alla concezione utilitaristica dell’uomo-oggetto, uomo- massa, uomo-mezzo, come tale strumentalizzabile per finalità extra personali, si contrappone la concezione personalistica dell’uomo-valore, uomo-persona, uomo-fine che applica il principio dell’indisponibilità dell’essere umano. Subordinando cioè ogni intervento sulla persona al rispetto della salvaguardia della vita, della integrità fisica e della salute, nonché dell’eguaglianza e pari dignità delle persone alle quali deve essere sempre richiesto il consenso informato. Cfr. Ferrando Mantovani, “Biodiritto e problematiche di fine della vita”, Criminalia 2006, www.edizionets.com .
15 Cfr. Mauro Perino, “Contro l’eugenetica economica e l’eutanasia sociale”, Prospettive assistenziali, n. 184, ottobre-dicembre 2013; Mauro Perino, “L’Europa dell’abbandono terapeutico”, Prospettive assistenziali, n. 205, gennaio-marzo 2019; Mauro Perino, “Sulla dignità del vivere e del morire: il caso dimenticato di Loris Bertocco”, Prospettive assistenziali, n. 206 aprile-giugno 2019; Mauro Perino, “Sulla morte di Vincent Lambert, tetraplegico in stato di coscienza minima, al quale sono state interrotte le cure con sentenza della Corte di Cassazione francese”, Prospettive assistenziali, n. 207, luglio-settembre 2019.
16 Va segnalato, per completare il quadro, che da decenni nessuna forza politica, nessun movimento sociale-culturale, nessuna chiesa, a partire da quella cattolica, nessun sindacato e nessuna altra organizzazione di cittadini ha predisposto azioni concrete a tutela della difesa e promozione dei diritti delle persone con disabilità, in primissimo luogo quelle non autosufficienti e quindi definitivamente e totalmente impossibilitate ad autotutelarsi. Nessuna di queste organizzazioni ha peraltro preso atto che la questione della non autosufficienza e delle misure indispensabili per un’esistenza accettabile è anche un problema di autotutela di ognuno di noi e dei nostri cari. Al riguardo è anche evidente che se l’organizzazione sanitaria è tale da assicurare interventi adeguati alle persone non autosufficienti, adeguati interventi sono sicuramente assicurati a coloro che sono in grado di autotutelarsi.
17 Salvatore Cannavò, “Lo Stato vive, viva lo Stato”, Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2020.
18 Silvia Truzzi, “Il virus antico che ha infettato la Costituzione”, Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2020.
19 Salvatore Settis, “Virus, tante scuse per rimuoverlo”, Op. Cit .
20 Rosy Battaglia, “Emergenza coronavirus, i tagli alla sanità che non bisognava fare”, valori.it, 10 marzo 2020.
21 Andrea Capocci, “Perché mancano le terapie intensive. Ma la ‘preparedness’ non è solo italiana”, ilmanifesto.it, 12 marzo 2020.
22 Cfr. i documenti del Consiglio dell’Ordine dei Medici di Torino e Provincia del 6 luglio 2015 e del 21 marzo 2016.
23 Andrea Ciattaglia, “Vecchi da (far) morire”, Prospettive assistenziali, n. 205, gennaio-marzo 2019.
24 Alessandro Marcigotto , “Noi anziani da buttare quando non serviamo più”, Il Fatto Quotidiano, 11marzo 2020.